Diritto del lavoroLegislazione e normativa

Le discriminazioni nel mondo del lavoro

La materia oggetto del libro è innanzitutto valutata sotto l’aspetto sociale, per le sfavorevoli ricadute che un diffuso sentimento discriminatorio può avere all’interno della comunità civile, precisando come lo stesso non tocchi solo il mondo del lavoro, ma possa radicarsi nelle relazioni quotidiane, insinuandosi nei rapporti giornalieri e colpire, come un insidioso morbo, chiunque, di umili o non umili condizioni, venga a trovarsi in una sfortunata situazione: il malcapitato è così allontanato e vessato per le ragioni più svariate (e sovente fantasiose: dall’occulto è affasciato il genere umano) che si pretendono di far risalire a lui come causa della detta situazione.

È tuttavia all’universo occupazionale che è rivolta la narrazione ed è proprio alla luce di tale traccia che l’argomento non poteva in primis non considerare l’etimo della parola, la cui più antica radice è di matrice greca: discriminare, nel senso di giudicare, da κρίνω. L’originaria connotazione del vocabolo è quindi in sé positiva, essendo il giudizio la caratteristica base d’ogni individuo dotato di avvedutezza morale e/o materiale; chi non la possiede, non sapendo separare ciò che è giusto da ciò che non lo è, ovvero chi non riesce a distinguere due posizioni tra loro distanti o divergenti, di certo è inaffidabile.

In definitiva, discriminare una situazione dall’altra vuol dire discernerne contenuti e contorni, cosa che costituisce un’insopprimibile esigenza nelle comuni relazioni, come nell’adempimento di un ufficio, di qualsiasi ordine e grado. La capacità discriminatoria rappresenta, dunque, il supporto critico che consente a chiunque di vivere e svolgere adeguatamente la propria esistenza, lavorativa e non. Da tale accezione nel linguaggio ordinario, si passa nel testo ad analizzarne brevemente i riflessi in ambito giuridico, constatando le ricadute positive che il vocabolo acquista per il diritto, nel senso che un fatto penalmente illecito va invece considerato lecito in forza proprio della “scriminante”, sicché, per puro esempio, anche un omicidio, reato assai grave, è giustificato quando intervenga come reazione proporzionata per salvare la propria vita.

Spesso capita, tuttavia, che accanto a quello originario, si accrediti un vocabolo di significati aggiuntivi, non di rado “deteriori” rispetto all’iniziale. Così accade, appunto, per la parola “discriminazione” che, come anticipato, acquista una valenza d’indubbio disvalore, quando suo tramite s’intenda significare l’isolamento cui venga costretto un soggetto come conseguenza di determinate sue condizioni o convinzioni personali (politiche, sindacali, religiose), di qualsiasi deficit da cui sia affetto, di provenienze territoriali, di orientamenti sessuali, di appartenenza etnica, ovvero ad un dato genere.

Orbene, nel mondo del lavoro e nell’attuale momento storico, la discriminazione così concepita ha assunto un significato d’indubbio disvalore. Essa concentra su di sé molta attenzione dell’opinione pubblica, denotando l’esclusione cui un dipendente è soggetto a causa di determinate sue condizioni personali e/o prestazionali all’interno di un’azienda (per appartenenza di genere, ruolo svolto nell’impresa, convinzioni politiche o religiose, attività sindacali svolte, ecc.).

Succede così che il nostro termine, mentre per un verso indichi la naturale propensione (l’intelligenza unita al buon senso, potremmo dire) di distinguere cose o persone, per altro conto denoti il riprovevole vezzo di bersagliare qualcuno estromettendolo dal gruppo nel quale è inserito; una condotta, quest’ultima, di sicuro miserabile se riveli il proposito d’impedire allo sventurato di manifestare compiutamente le proprie potenzialità professionali.

Siamo con ciò pervenuti al focus che occupa l’intero percorso del libro che, attraverso uno svolgimento della classificazione del “morboso” fenomeno, ha una caratteristica inconfondibile: la diffusione della maldicenza con cui si cerca di mettere all’angolo il soggetto preso di mira.

Tutti ricorderanno la cavatina “La calunnia è un venticello” del Barbiere di Siviglia; ebbene, la discriminazione ha proprio questa natura: mettere addosso alla vittima una maschera, un abito che lo “bruci” sul piano lavorativo (nel testo si fa il raffronto con la camicia di Nesso che uccise Ercole). La cosa ha, invero, degli effetti nefasti che si riverberano in ambito personale (della psiche), familiare e, perché no, anche sociale, dato che il consorzio non potrà fruire delle capacità del predetto. A risentirne saranno quindi anche i criteri della meritocrazia su cui deve reggersi ogni società civile.

Le motivazioni che fungono da presupposto a simili atteggiamenti sono le più varie: si va dal puro divertimento di vedere soffrire una persona appioppandole un’etichetta (di scarsa intelligenza, ignoranza, di attaccabrighe, ecc.), alla pura antipatia che si nutre verso di essa, al volerle impedire di raggiungere un dato risultato, pur in assenza di un tornaconto in capo al vessatore, dalla pretesa di esercitare una sorta di potere sugli altri a quella di ghettizzare chi si reputi lo scomodo concorrente a un’ambita carica.

Il risultato della condotta discriminatoria è l’offesa ai fondamenti della Costituzione; tra di essi spicca il principio d’eguaglianza. Gli artt. 2 e 3 della nostra Carta fondamentale dei diritti sono in proposito inequivocabili: come è garantita ad ognuno la tutela della propria sfera giuridica sia come singolo, sia negli aggregati ove si svolge la sua personalità (art. 2 Cost.), non è ammesso alcun vulnus alla pari dignità e all’effettiva  partecipazione di tutti i lavoratori alla vita “politica, economica e sociale del Paese”, ripugnandosi infatti, come si è accennato, qualsiasi distinzione che si intenda arrecare per ragioni di “sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali” (art. 3 Cost.).

Uno degli elementi di rischio oggi più ricorrenti è legato all’appartenenza di genere, come occasione in grado di colpire negativamente sia uomini che donne, ma che, sempre nell’attuale momento storico, interessa specificamente queste ultime. Da qui, tutta una serie di tutele, anche inibitorie, attivabili dalla persona interessata.

In questo contesto, non ci si può non soffermare sul Welfare, quale sistema capace di ridurre, se non di “parificare”, le differenze che a livello occupazionale possono, rispetto all’uomo, investire la figura femminile (si pensi ai rimedi ed alle strutture, come gli asili nido o dell’infanzia all’interno dell’azienda, capaci di aiutare la madre lavoratrice, ovvero ad altri incentivi anche economici). Il tutto, ovviamente, alla luce del dettato costituzionale dell’art. 37, secondo cui le “condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento dell’essenziale funzione familiare ed assicurativa alla madre ed al bambino una speciale adeguata protezione”.

La materia, sotto l’aspetto normativo, è in continua evoluzione, risentendo dell’abituale atteggiamento “bulimico” del nostro legislatore. All’interno della disciplina che ne deriva, un particolare cenno è riservato al Codice delle pari opportunità e al rilievo giuridico che, con gli strumenti posti in campo, esso occupa.

  • Avvocato, attualmente si dedica alla ricerca in campo giuridico, coniugando l’esperienza maturata in tanti anni di professione con l’approfondimento del diritto nei suoi vari settori.
    Curatore e autore di diverse monografie in tema di diritto del lavoro, di diritti reali, di espropriazione per pubblica utilità, di mandato, di condominio, di locazione, di diritto processuale civile, negli ultimi anni ha rivolto particolare attenzione anche all’evoluzione del diritto di famiglia, ai fenomeni discriminatori che si manifestano nel mondo del lavoro e al mutamento del comportamento minorile e della sua valutazione giuridica, pubblicando per vari periodici giuridici. È membro del Comitato Scientifico della rivista Nuova giurisprudenza ligure.

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