100 donne vestite di rosso: intervista ad Alessia Cotta Ramusino
Quando hai scoperto la scrittura?
Penso di aver amato la scrittura fin da bambina… l’ho scoperto in più fasi e sotto diversi aspetti.
Ho sempre avuto un senso estetico piuttosto sviluppato e mi sorprendevo ad osservare le differenti grafie delle persone a me intorno: quella di mia madre era molto personale ma slegata, le lettere non correvano l’una di seguito all’altra con un tratto unico bensì il tratto di fermava e la lettera rimaneva isolata. Quella di mio padre era ricercata, estremamente elegante, continua, ma anche un po’ spigolosa. Quella che ho amato di più in assoluto era quella di mia nonna paterna, Adele, la sua non era solo elegante ma sinuosa, regolare, bella, pulita, fluida, leggibile.
Il mio primo approccio quindi fu puramente estetico, quasi artistico, tuttavia dovetti presto fare i conti con l’essere sinistrorsa… Come tutti i mancini i fogli su cui scrivevo erano sempre macchiati di inchiostro così come la nocca del mignolo della mano sinistra che poggiava sul foglio brandendo la penna: marchiata con un pois blu o nero o rosso a seconda del colore che usavo.
Mia nonna quando le dissi che scriveva bene, mi rispose che una volta la grafia veniva studiata e si facevano tantissimi esercizi fino a farla diventare bella.
In effetti anticamente era una materia vera e propria la “calligrafia” ovvero la disciplina che insegna a tracciare una scrittura regolare, elegante e ornata e l’arte che la manifesta.
Così presi ad ingegnarmi su come avrei potuto evitare quel fastidioso pois di inchiostro e la scia che lasciava sul foglio, e cominciai a studiare le posizioni della mano fino a traslarla completamente in modo da appoggiare il dorso del palmo al di sotto del rigo che scrivevo.
Nel continuare a fare questi esercizi, dapprima proprio come mera e pedissequa copiatura di testi altrui, cominciai ad inventarli, era più rapido, tanto non era importante il contenuto bensì la forma… quando iniziai a notare i miglioramenti nella forma provai una certa piacevolezza ad ideare frasi, periodi, storie più o meno lunghe. Non le ho conservate se non sporadici esempi. Le leggevo per lo più a mia sorella Alessandra, mia compagna di stanza, oppure le raccontavo alla mia nonna materna nella fase di addormentamento pomeridiano… diceva che le conciliassero il pisolino.
100donnevestitedirosso è il tuo primo libro?
No, ho sempre avuto una spiccata fantasia e fervida immaginazione. Il primo libro in cui mi sono cimentata è un libro fantasy, primo volume di una saga “L’ultimo Respiro del Leone” è un giallo fantasy di matrice storica. Affonda le radici nei miti persiani e ovviamente l’ispirazione mi è venuta dalla mia esperienza di vita in Iran.
100donnevestitedirosso è nato invece da una domanda che continuavano e continuano a pormi, ovvero: “come sei arrivata a creare il movimento di sensibilizzazione 100donnevestitedirosso?!”
Ogni volta che mi veniva rivolta, la risposta la arricchivo di particolari, aggiungevo aneddoti che raccontavano una parte della mia storia, delle mie esperienze, della mia vita… è così che mi è venuta l’ispirazione. Ho scelto 100 episodi della mia esistenza che in qualche modo hanno plasmato il mio impegno sociale e che potesse realmente rispondere in maniera esaustiva alla domanda. Ci sono volute circa 200 pagine per rispondere e per descrivere come sono arrivata ad unire i puntini, come disse Steve Jobs nel famoso discorso all’Università di Stanford il 12 giugno 2005 nel giorno della consegna dei diplomi di laurea: Stay Hungry, Stay Foolish – Siate affamati. Siate folli. E chi se lo dimentica! Sono affamata e folle anche un tantino visionaria e così ho unito i puntini solo che i miei, sono rossi, perché il rosso è il mio colore preferito ed è il filo rosso che unisce i cento episodi del libro.
Quali sono state le esperienze più significative quindi?
L’esperienza che per me rappresenta il “seme iniziale” di questo percorso è stato quando in Iran mi chiesero in sposa a soli 8 anni di età.
I miei genitori fecero capire che questa usanza non faceva parte della nostra cultura; quindi, rifiutarono la proposta con molto garbo e diplomazia per non offenderli, perché́, dal lato loro, noi avremmo dovuto sentirci onorati di aver ricevuto questa richiesta, dal lato mio, decisi da quel giorno, di indossare solo pantaloni e dire a tutti che ero un maschio, non ero una femmina.
Ricordo ancora molto bene il mio stato d’animo… Ho provato i sentimenti e conosco i pensieri che s’insediano nel cuore e nella mente di quelle bimbe che si vedono strappare via dalle proprie famiglie, dai propri fratelli, sorelle, amici, dalla propria cameretta, dai giochi, insomma da un’infanzia e un’adolescenza spensierata come dovrebbe essere.
Sono riuscita a liberarmi dalla paura solo al rientro in Italia avvenuto ai primi sentori dei dissidi interni al paese che sarebbero sfociati nella rivoluzione iraniana del ’79, per cui fummo rimpatriati. Qualche traccia, tuttavia, è sempre rimasta dentro di me ed ha continuavo a lavorare nella mia mente e nell’anima.
Cosa ricordi della rivoluzione iraniana del ’79?
Ricordo le sensazioni, le vibrazioni di paura e preoccupazione che attraversavano gli sguardi che si scambiavano i miei, senza proferir parola. Perché malgrado si creda di proteggere i bambini, nel momento in cui gli si nasconde qualcosa, la sentono, perché i bambini hanno ancora intonsa la scatola dei sensori e ricettori umani al massimo dell’integrità, naturalezza e freschezza. Captano tutto, anche se quel tutto che captano non sanno razionalmente decifrarlo. Ma quelle sensazioni di paura, di instabilità non ti abbandonano mai e solo più avanti nel tempo, capirai da dove sono venute…
Non posso fare a meno allora di accennare alle guerre in corso ma non dal punto di vista geo-politico, bensì quello puramente umano che porta al pensiero del trauma che stiamo causando a questi bambini, non solo quelli che perdono la vita, ma quelli che sopravviveranno…
Che persone saranno questi bambini che ora stanno vivendo l’obbrobrio della guerra?
Per anni mi sono occupata come Ambasciatrice Unicef dei diritti dei bambini: la guerra li viola tutti. Non capisco come nel 2024 possano ancora esistere guerre, se non per motivi tanto ovvi quanto biechi e ciechi come coloro che le portano avanti, ovvero potere e denaro.
Le sensazioni che provai, me le portai dentro fino a quando le tramutai in musica: Nemidunam è una delle mie composizioni musicali che affronta il tema della guerra, a giusto titolo direi che è stata la prima da cui è iniziato il mio impegno sociale, e divenne colonna sonora di una fiction TV di Canale 5 nel 2002.
“And that medal on your Chest is the toy of a child who is died by your hand!” (testo del brano)
“E quella medaglia sul tuo petto è il giocattolo di un bambino che è morto per mano tua!”
I cento episodi del libro oltre che dal filo rosso, sono uniti dalla tua musica perché sei scrittrice e sociologa ma soprattutto musicista, compositrice…
Sì, più volte attraverso la musica ho rappresentato i luoghi che ho vissuto dando uno spaccato della mia vita e contemporaneamente della società che vivevo in quel momento cogliendo e trasmettendo i disagi sociali che inevitabilmente mi colpivano, mi impressionavano…
E ciò che mi emoziona, positivamente o negativamente, sento il bisogno di annunciarlo o denunciarlo e lo faccio a modo mio, attraverso i mezzi che sento più consoni e la musica sicuramente ne fa ampiamente parte: è uno strumento straordinario in grado di raggiungere tutti, è indiscutibilmente un linguaggio universale che tocca le anime senza distinzioni di genere, età, religione, cultura, costumi, tradizioni, lingue… E così oltre a Nemidunam in cui ho cristallizzato le sensazioni della guerra del ‘79, ho composto un brano con i sentimenti e i propositi che ho maturato dall’episodio occorsomi quando da bimba fui richiesta sposa, scrivendo il brano, sempre musica e testo, “AWARE – from little girl to woman” (Consapevole – da bambina a donna) che può essere letto come un dialogo tra una donna matura ed una bambina oppure il dialogo interiore che una donna matura fa con la bambina che è stata.
Venne pubblicato l’11 ottobre 2020 in occasione della Giornata Internazionale delle Bambine e delle Ragazze (International Day of the Girl) istituita dall’ONU proprio per sottolineare l’importanza dell’uguaglianza di genere e per garantire pari opportunità̀ a ogni bambina e ragazza, e contro i matrimoni precoci. E proprio nel 2020 fui nominata Ambasciatrice Unicef di Buona volontà per Regione Liguria occupandomi precipuamente della campagna #bambinenonspose.
Nel tempo, come molte donne, ho conosciuto altre forme di ingiustizia, prevaricazione e violenza, e ne ho fatto la mia missione personale nel combatterle e così è arrivata: YALLAH la ballad che composi nel 2011 per il femminicidio di Melania Rea, che è diventata la canzone di accompagnamento del flashmob #100donnevestitedirosso, definita “L’Inno contro i crimini sulle donne” e con cui porto avanti l’impegno di diffondere la cultura del rispetto come rimedio educativo al fenomeno della violenza sulle donne. Il mantra Respect and Love con cui chiude la ballad Yallah, è il momento più significativo ed emozionante sia per chi partecipa al flashmob sia per chi ne è spettatore.
Come ti è venuta l’idea del flashmob?
I flashmob rappresentano una fusione tra espressione artistica e attivismo sociale, non potevo scegliere migliore strumento per unire le mie due anime: la musicista e la sociologa. Attraverso l’arte della danza, del canto e della performance collettiva, i flashmob riescono a coinvolgere emotivamente il pubblico, spingendo le persone a riflettere e ad agire. Con il loro valore simbolico e comunicativo, continuano a essere una forma innovativa di sensibilizzazione e cambiamento sociale.
E’ ormai diventato “iconico” il flashmob #100donnevestitedirosso, partito da Genova, ha poi girato l’Italia in lungo e in largo dal 2017, toccanto tanti dei principali luoghi del bel paese: dal Cimitero Monumentale di Staglieno a Genova, alla Valle dei Templi di Agrigento, dal Campidoglio di Roma in occasione del Premio Internazionale Donne D’Amore, al Festival del Cinema di Venezia, e poi ancora al Senato della Repubblica italiana per sensibilizzare contro le mutilazioni genitali femminili, al G20 Ministerial Conference on Women’s Empowerment, tenutosi nel 2021 a Santa Margherita Ligure. Fu la prima volta che in ambito G20 venne pianificato un evento-conferenza internazionale sull’empowerment delle donne, dando centralità alla qualità del lavoro femminile, alle politiche per la valorizzazione del talento e della leadership delle donne, all’affermazione e alla tutela dei loro diritti e al contrasto alla violenza di genere. Ed io ho avuto l’onore di realizzare il Flashmob #100donnevestitedirosso nella serata di apertura dei lavori.
In questi anni hai portato avanti la lotta contro la violenza sulle donne, non solo in Italia ma hai sensibilizzato per le donne turche, per quelle afghae e non da ultimo ti sei unita alla battaglia delle donne iraniane scendendo nelle piazze e inneggiando insieme a loro: Donna Vita Libertà – Ti senti vicina alla loro causa? Cosa ha a che vedere con noi l’indossare o no l’hijab?
Te lo spiego con il risultato di uno dei miei studi sociologici “L’Effetto Farfalla” e, per descriverlo, parto dalla fisica: l’effetto farfalla è una locuzione nota in fisica nell’ambito della teoria del caos, secondo cui in un sistema, piccole variazioni nelle condizioni iniziali producono grandi variazioni nel comportamento a lungo termine del sistema stesso.
Viene spiegato in parole semplici, nel film Jurassic park (1993), di Steven Spielberg in cui uno dei protagonisti, il matematico Ian Malcolm (Jeff Goldblum), usa la metafora per spiegare la teoria del caos alla paleobotanica Ellie Sattler (Laura Dern):
Una farfalla batte le ali a Pechino e a New York arriva la pioggia invece del Sole
Quindi ho applicato l’effetto farfalla della fisica nel contesto sociale in relazione alla condizione della donna e il risultato è stato: “Il battito d’ali di una donna in Iran può provocare un movimento rivoluzionario in Italia”
Questo mio studio è suffragato anche dalla stessa data, ora celebrata in tutto il mondo, istituita dall’Onu nel 1999, in ricordo delle tre sorelle Mirabal, deportate, violentate e uccise il 25 novembre 1960 nella Repubblica Dominicana. Dalla loro morte ne è scaturita una vera e propria rivoluzione culturale e sociale che dalla Repubblica Domenicana è arrivata in Italia e in larga parte del globo.
E guarda caso il nome in codice delle sorelle Mirabal nella loro opposizione al regime di Trujillo era MARIPOSAS ovvero le farfalle.
In buona sostanza fino a che una donna in una qualunque parte del mondo subisce ancora soprusi, violenze, o viene ritenuta inferiore, giustifica da questa parte dell’emisfero il pensiero di un uomo che la considera inferiore e che si permette di trattarla come tale.
Capire il potere dell’effetto farfalla significa essere consapevoli che piccole azioni possono contribuire a generare grandi cambiamenti. Ecco perché ognuna di noi ha un grandissimo ruolo e può dare un prezioso contributo se assume la piena coscienza e consapevolezza di essere un agente di cambiamento.
Lo scorso 9 dicembre, per la ricorrenza del 70esimo anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, sei stata speaker all’ONU alla conferenza multidisciplinare e multietnica “Diversità come Risorsa: Uniti per una Cultura di Pace, Condivisione e Inclusione”, presso il palazzo delle Nazioni Unite a Ginevra. Nel tuo libro 100donnevestitedirosso affronti anche questo tema, ti è servito per il tuo intervento?
Il vero splendore è la nostra singola, sofferta, diversità
Con questa frase di Margaret Mazzantini, inizia il mio libro 100donnevestitedirosso quindi la risposta alla tua domanda è sì, mi è servito l’aver vissuto certe situazioni e aver conseguito delle riflessioni in merito. La storia personale di ognuno di noi diventa modello di vita per altri, e se ne siamo coscienti sappiamo cosa vogliamo lasciare di noi, quali tracce segnare, e quali strade tracciare. Ecco perché ho scelto la frase della Mazzantini proprio per restituire ad ogni essere umano la consapevolezza della sua unicità, della sua singola, sofferta, diversità … Quindi oltre all’onore di essere stata invitata con la mia organizzazione di volontariato 100donnevestitedirosso odv, ho portato con me tutto il bagaglio di esperienze di vita vissute e che ho descritto nel libro scegliendole proprio per il significato sociale e formativo, te ne cito una:
“…chiesero di presentarci ovvero alzarci in piedi e dire nome e cognome e la scuola elementare di provenienza. Avevano tutte una scuola tipo: Istituto delle Suore Orsoline, L’Alessi, Istituto delle Immacolatine, Scuola Paritaria Figlie di San Giuseppe, insomma tutte, tranne me. Quando fu il mio turno mi alzai e dopo il mio nome dissi: “Vengo dall’Iran, Birjand”, ci fu un certo silenzio seguito poi da un brusìo tra le altre ragazzine. Io mi guardai intorno e molte si scambiavano bisbigli all’orecchio, si scambiavano sguardi di cui non riconoscevo il significato… mi sentii un pesce fuor d’acqua. Gli sguardi e i commentini proseguirono durante tutta la prima ora. Il suono della campanella fu un sollievo questa volta. Alcune ragazze mi si avvicinarono per curiosità e la cosa che mi sorprese fu che cominciarono a toccarmi i capelli, ad accarezzarli… come se i capelli rappresentassero la differenza tra me e loro o al contrario i capelli rappresentassero l’unione tra me e loro come un segno di uguaglianza tra nate femmine. Strano pensare alle proteste in atto in Iran che hanno avuto inizio proprio da una ciocca ribelle e scomposta di capelli che Mahsa Amini ha lasciato incautamente uscire dal velo, dall’hijab. I capelli rappresentano la femminilità per quei popoli al punto da reputare che debbano essere tenuti nascosti ma credo che anche per noi occidentali siano un punto di bellezza e di femminilità. Compresi tuttavia quanto mi considerassero diversa da loro.
[…]
Diversità e integrazione li ho conosciuti fin da bambina e credo sia per questo che non ho barriere mentali né preclusioni.”